Articoli di Giovanni Papini

1957


in "Gli inediti di Papini":
Toscana barbara
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXXII, fasc. 274, p. 3
Data: 17 novembre 1957


pag. 3




   Nella Settimana Santa de 1908 mi recai per la prima volta nella Val Tiberina. Siccome da molti anni non godevo l'aria e la pace della campagna e i guadagni miei erano appena bastanti a non morire di fame si decise, io e mia moglie, di rimaner lì, dove l'aria dell'Appennino era fresca e salubre e dove la vita costava assai meno che nelle città. Ci allogammo, da principio, nella casa d'una pigionante, in una stanza dove non v'era altro arredo che un vetusto letto di legno con un saccone di foglie di granturco, alto come il basamento di una statua equestre.
   Per me, nato e cresciuto tra muri illustri e strade lastricate tutto era nuovo e allettante: vasti paesaggi montani, i boschi ombrosi e deserti, i visi e i costumi dei pastori e dei contadini, e perfino il loro linguaggio dove, con mia meraviglia, ritrovavo parole prettamente latine e locuzioni che dal Cinquecento in poi erano sparite dai parlari cittadineschi. Il pane, il cacio e l'uova costavano pochi centesimi e si potevan trovare, per companatico, fragole, lamponi, carline, more e funghi che non costavano addirittura nulla.
   Io avevo sempre sognato, fin da ragazzo, di vivere in un luogo selvatico, in una casa di sassi in cima a una montagna, lontano dagli strepiti e dai puzzi delle città. Mi ritrovavo, ora, in una specie di Arcadia pastorile e villereccia che somigliava un po' al mio sogno ed ebbi, come non mai prima, la rivelazione della natura quasi vergine e della solitudine contemplativa. Per arrivare al villaggio dove avevo preso stanza c'erano solo due sentieri scabrosi che salivano, attraverso le macchie, dalla carrozzabile che costeggiava il Tevere, sicchè potevo immaginarmi d'essere addirittura fuori del mondo, a incommensurabile distanza dalla cosiddetta civiltà.
   In quel primo tratto della valle del Tevere che dalle vene del Fumaiolo giungeva al primo borgo, a Pieve Santo Stefano, sembrava che tutto fosse ancor rimasto intatto e primitivo, senza aver risentito dei mutamenti del tempo. Mi sembrava d'essere stato trasferito in un altro secolo, in mezzo a un popola antico, che vivesse ancora al modo di lontani antenati.
   Non sfuggivo la gente: tutt'altro. La lettura di Tolstoi mi aveva preparato al mito del contadino semplice, dell'uomo della natura, del mugik buono e savio nella sua ignorante povertà. Feci amicizia con tutti, contadini, pastori e braccianti e cominciai a osservare la vita di quella gente come un esploratore o un missionario capitati in mezzo a una tribù sconosciuta. Mi stupivo di vedere spalancati tutti gli usci delle case e di potere entrare a tutte le ore, e di essere accolto con rozza ma familiare ospitalità. Andavo al campo con i mietitori, alle veglie della spannocchiatura del granturco, discorrevo con i vecchi seduti al fuoco, con le pecoraie che facevan la calza nei chiusi all'ombra dei meriggi. Non capivano bene quel che io fossi e quel che facessi, ma dappertutto trovavo buon viso. Quando seppero che scrivevo mi rispettarono ancora di più perchè, dicevano, «la penna è più pesante della zappa»

***

   Ma le mie esplorazioni mi dettero, insieme, sorpresa e dolore. Il villaggio nel quale abitavo era fatto da poche case, le più sparse, sul dorsale d'un poggio che strapiombava sul fiume. Le case erano cadenti, mal costrutte e mal tenute, coperte di lastre sconnesse, composte di poche stanze quasi sempre buie, perchè le finestre eran rade e piccole, con impiantiti di assi sudicie e consunte, con le pareti affumicate e talvolta non intonacate. Non v'era, in tutto il paese, nè un lume a petrolio, nè una macchina da cucire, nè un fornello, nè un canterano. V'eran soltanto lucernine nere che venivano attaccate con un uncino al focolare; e tenevano i pochi cenci in cassoni bassi nascosti nei cantucci delle camere. Le latrine erano ignote; nessuno, eccettuato un vecchione soprannominato il Padreterno per la sua barba prolissa e canuta, possedeva un orologio. Nessuno possedeva un libro purchessia, ma certi vecchi sapevano a memoria ottave del Tasso, canti di chiesa e la Pia de' Tolomei del Sestini.
   In vetta al poggio v'era una cappella rustica di pietra, ma il prete non risiedeva nel villaggio e soltanto la domenica mattina veniva, quando veniva, a dir la messa. Non c'era neanche la scuola e difatti quasi tutti erano analfabeti. Per avere un po' d'acqua le donne dovevano scendere in una valletta lontana, dove c'era una fontana che spesso smetteva di sgocciolare il suo filo, e le disgraziate dovevan tornare in su, con le mezzine piene, per un'erta sassosa e sdrucciolevole. Nessuno leggeva i giornali; il postino saliva lassù soltanto due volte l'anno, per Pasqua e per Natale, perchè i contadini gli regalavano, in quelle solennità, qualche coppia d'uova.
   Il paese, in cima al colle, era quasi un'isola: da una parte vi erano mulattiere che portavano soltanto ai campi più alti e alle pasture; da una parte e dall'altra due torrenti che sol d'estate si potevano guadare e il quarto lato dava sul Tevere, che in quel tratto non aveva ponti. Quei naturali ostacoli rendevano difficile e talvolta impossibile, specialmente d'inverno, la salita al villaggio, che rimaneva quasi isolato per mesi interi. Il prete, il medico, la levatrice si rifiutavano spesso, e talora con ragione, di andar lassù quando il Tevere e i torrenti erano in piena e i sentieri, per le grosse nevicate, erano tutti a un pari coi campi. I moribondi dovevan morire senza sacramenti, i malati dovevan raccomandarsi alla Provvidenza, le donne dovevan partorire sole come le capre e i morti dovevano aspettare settimane intere fuor dell'uscio di casa perchè il camposanto era lontano, al di là del fosso più gonfio e impetuoso.
   Non si vedeva mai, lassù, nè un carabiniere nè un uomo del Comune. Chi aveva bisogno di consiglio, d'aiuto, di assistenza o di giustizia doveva scendere a Pieve Santo Stefano e là, a quel che mi dicevano i contadini, nessuno era ascoltato se andava a mani vuote. Per ottenere un certificato, un documento qualsiasi, bisognava andare laggiù parecchie volte e sempre con offerte propiziatorie di agnelli, di polli, di piccioni, di forme di cacio pecorino, altrimenti quei poveretti erano ributtati in malmodo come se fossero bestie moleste e non creature umane. Mi accorsi, ben presto, che il popolo lassù aveva una stranissima idea delle autorità, della giustizia e del Governo. Secondo loro tutti quelli che comandavano erano prepotenti nemici e malcreati, che si potevano ammansire soltanto a forza di tributi volontari e straordinari o per l'intercessione di qualche persona che «fosse intesa». E più tardi, dopo ch'ebbi ottenuto qualche favore per quegli abbandonati e s'immaginarono ch'io avessi chissà quale influenza, non mi salvai più. Ho dovuto scrivere migliaia di lettere, istanze, suppliche e memoriali, a sindaci, podestà, brigadieri, avvocati, prefetti, ministri e ad altri simili personaggi. Credo, anzi, che le pagine da me scritte per i bisognosi abitanti della Val Tiberina, nei trentacinque anni che sono andato lassù, siano di gran lunga più numerose di quelle che formano le mie opere.

***

   Non v'è da meravigliarsi se questa misera gente non mostrasse nè in pace nè in guerra, alcun sentimento civico e nazionale. Dello Stato non conoscevano che l'esattoria comunale. l'ufficio di leva, e qualche impiegato infingardo e villano che si curava soltanto di estorcere quattrini e cibarie. La guerra, per loro ch'erano al buio di tutto, significava soltanto una sottrazione di braccia giovani atte al lavoro, madri e spose abbandonate nelle faccende e nelle difficoltà.
   Mi accorsi pure che non avevano un vero sentimento religioso. Andavano tutti alla messa, quando c'era, ma il più del tempo, invece di partecipare in raccoglimento al sacrificio divino, recitavano ad alta voce litanie e giaculatorie per conto loro. Non ho mai sentito un prete che spiegasse a loro, sia pure alla buona, il significato e il valore della messa, e quando spiegavano il Vangelo i preti si scagliavano contro «l'empio Voltaire» che quei poveri analfabeti non conoscevano neanche per sentito dire o contro la «corruzione del lusso e dei bagordi», mentre gli ascoltatori non conoscevano altro bagordo che un bicchier di vino la domenica e altro lusso che un fazzoletto di vistoso colore. Erano più che religiosi, superstiziosi, con qualche sopravvivenza pagana. Credevano all'efficacia magica di certe preghiere, di certe immagini e in caso di malattia, quando la Madonna o i Santi indugiavano a conceder la grazia, si rivolgevano agli stregoni e alle fattucchiere. Le feste religiose — lassù ve n'erano due all'anno — eran pretesti per mangiare e bere un po' più del solito e l'esempio lo davano i preti convenuti da tutte le parrocchie del piviere che non vedevan l'ora di finire la messa cantata per assidersi a una tavola ben fornita dalla generosità dei popolani.
   Ma i preti, fuor che i giorni di festa, non capitavano quasi mai lassù. Venivano, invece, molti fiati alla cerca di grano e di formaggio; venivano molti mendicanti, uno più strano e strappato dell'altro, che si contentavano — poichè le monete coniate erano rarissime — di una giumella di fagioli o di farina, di un uovo o di tre o quattro patate.
   I visitatori più misteriosi, almeno per me, erano i cosiddetti «fuggiaschi». Erano gente che aveva commesso qualche delitto e che, per sfuggire alla prigione, viveva alla macchia, in grotte o in capanne di carbonai, più spesso nomadi tra un monte e l'altro, e ogni tanto calava alle case. Eran qualcosa di mezzo tra i briganti e i questuanti, ma non davano noia a nessuno. Tutt'al più rubacchiavano, ma di solito chiedevano aiuto con buone maniere e nessuno si arrischiava a respingere a mani vuote quei ceffi di bestiale aspetto. Il più famoso tra loro, detto il Monco, quando veniva da me chiedeva soltanto un po' di soldi per il suo «viaggio», come diceva lui, ma senza chiarire mai di qual viaggio si trattasse. Soltanto una volta due o tre di tali disperati, d'inverno, dopo aver picchiato invano alla porta d'un prete, ch'era rimasta chiusa, si erano accampati nel camposanto, avevano tolto le croci delle tombe, avevan rubato un paio di galletti dal pollaio presbiterale, e avevano acceso un bel fuoco nella cappellina mortuaria per arrostire i polli e scaldarsi.
   Questa era, detta in breve, la forma di vita che potei osservare attorno a Bulciano, dove, piacendomi il posto, mi fabbricai più tardi una casa per andarci d'estate a lavorare in pace.


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